Contributo gentilmente inviato a cura dell’Avv. Marianna Pulice
Il sistema legislativo italiano prevede diversi mezzi di garanzia dell’adempimento degli obblighi patrimoniali stabiliti dal giudice della famiglia in situazioni di crisi, quali il sequestro dei beni, l’ipoteca giudiziale, la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado, l’obbligo di prestare idonea garanzia reale o personale e l’ordine di pagamento diretto.
Quest’ultimo, considerato dalla Dottrina lo strumento esecutivo più idoneo a garantire la completa e tempestiva attuazione di un credito periodico come quello derivante dall’obbligo di mantenimento, può assumere quattro diverse forme: un procedimento monitorio chiuso con decreto per il versamento diretto di una quota dei redditi dell’obbligato, previsto dall’ art.148, 2° comma c.c.; la distrazione di somme di denaro che terzi sono tenuti a corrispondere all’obbligato, previsto dall’ art. 8, 3° comma della legge sul divorzio; nei casi di allontanamento dalla casa familiare, il versamento diretto di parte della retribuzione, previsto dall’ art.342-ter c.c.; e l’ordine al terzo, tenuto a corrispondere anche periodicamente somme di denaro, che una parte di esse venga versata direttamente all’avente diritto al mantenimento, previsto dall’art.156, 6° comma c.c..
La formulazione di quest’ultima disposizione codicistica è stata oggetto di diversi interventi costituzionali tesi ad estenderne l’operatività in quanto ritenuta fortemente efficace.
Di recente la Suprema Corte, con la sentenza del 6 novembre 2006, n. 23668 è intervenuta ribadendo il principio posto a fondamento della previsione e mostrando piena adesione all’orientamento consolidatosi nel tempo in subiecta materia.
Tale principio, però, non è quello che emerge da una prima ed immediata lettura della norma, e che è stato pubblicizzato dalla stampa, di settore e non solo.
La pubblicazione della sentenza, infatti, è stata preannunciata sottolineando un aspetto sì precipuo, quale quello della subordinazione della prevista facoltà del giudice anche ad un “lieve ritardo” nell’adempimento dell’obbligo di mantenimento, ma non la sua effettiva ratio legis.
Da un excursus storico in materia, emerge che la Corte di Cassazione, in più di un’occasione, in armonia con il più ampio complesso normativo costituitosi, ha cercato di interpretare in maniera sempre più estensiva la nozione di inadempienza di cui all’art.156, 6° comma, c.c., qualificandola con aggettivi quali parziale, inesatta, tardiva ed isolata, ma per realizzare il vero obiettivo della previsione normativa: non vedere frustrate le finalità dell’assegno di mantenimento, e quindi rendere tempestivo ed efficace l’obbligo di mantenere il coniuge bisognoso e, soprattutto, la prole (Corte Cost. 258/1996).
Nella vicenda decisa con la sentenza quivi commentata, la Cassazione disattende i motivi di ricorso sostenuti dal coniuge obbligato, i quali sono incentrati sull’esiguità dell’inadempimento estrinsecatosi – si legge nella sentenza – solo “in qualche occasionale ritardo”. Tali circostanze, che il coniuge obbligato ha cercato di minimizzare, sono state fatte oggetto, da parte del tribunale e poi della Corte di Cassazione, di un ragionamento induttivo che ha portato a considerarli prova di una mancanza di puntualità e regolarità nell’esecuzione dei pagamenti e, quindi, di un ragionevole dubbio sulla regolarità dei pagamenti futuri, ponendo tutto ciò, legittimamente, a fondamento dell’ordine coercitivo di distrazione emesso in sede giudiziale.
La Suprema Corte, nella sentenza, richiama l’esegesi del disposto già effettuata in precedenti pronunce, quali la sent. 12204/1998, la sent. 4861/89, nelle quali già subordinava la suddetta facoltà del giudice all’inadempienza e non anche alla gravità della stessa, ma se ne potrebbero aggiungere tante altre. Ad esempio nella sentenza della Cassazione 1095/1990 si ritengono sufficienti anche soli pochi giorni di ritardo in quanto- si legge – “la funzione che adempie l’assegno di mantenimento viene ad essere frustrata anche da semplici ritardi”.
Tale misura coercitiva è comunque lasciata al prudente apprezzamento del giudice, il quale deve valutare l’idoneità dei comportamenti dell’obbligato a frustrare le finalità dell’assegno di mantenimento. Il giudice deve ricostruire analiticamente le modalità dei pagamenti effettuati e il difensore deve allegare quanto necessario per provare la mancanza di puntualità. Tutto ciò deve avvenire al fine di permettere di arrivare ad una motivazione congrua e logica basata sugli elementi concreti da cui traggono origine i dubbi circa l’esattezza e la regolarità del futuro adempimento dell’abbligazione periodica.
Quanto finora dedotto ben si inserisce nelle recenti modifiche operate dall’art.3 della legge 54/2006 recante “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli” con cui è stato previsto che la violazione degli obblighi patrimoniali (nella specie l’inadempienza dell’assegno di mantenimento della prole) integra gli estremi del reato ex art.12-sexies della legge 898/1970. La considerazione conseguenziale sorge spontanea: se tale violazione può entrare nell’alveo penalistico, a maggior ragione può porsi a fondamento di un’imposizione coercitiva civilistica.
Concludendo, è vero che la sentenza 23668/2006 rimarca un concetto di inadempienza posto a base della misura ex art.156, 6° comma, piuttosto ampio, ma di certo non più ampio di quello già espresso sin dagli anni 80-90.
L’importanza della pronuncia, allora, è legata al fatto che la Suprema Corte l’ha utilizzata come occasione per ribadire l’importanza della funzione dell’assegno di mantenimento, che è tale, addirittura, da consentire di eliminare i limiti quantitativi alla misura stessa.
L’art.156, 6° comma c.c. recita testualmente,” In caso di inadempienza, su richiesta dell’avente diritto, il giudice ….può ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente algi aventi diritto”. Parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, ritengono che la limitazione dell’ordine di pagamento a solo una parte dei crediti vantati dal coniuge si spiega nell’esigenza di evitare che il coniuge obbligato sia privato interamente dei suoi crediti e, dunque, sia esposto al pericolo di perdere ogni sostentamento ( così Casaburi e Trib. Modena 5 febbraio 1999).
La Cassazione, con la sentenza n. 23668, invece, ha ribadito l’orientamento maggioritario in subiecta materia, e afferma l’inesistenza di limiti quantitativi alla misura. Così si legge: “il giudice può legittimamente disporre il pagamento diretto dell’intera somma dovuta dal terzo quando questa realizzi pienamente l’assetto economico determinato in sede di separazione” ( così come Cass. Civ. 12204/1998; Cass. Civ. 1398/2004; Cass.Civ. 1398/2004; Trib. Catania 9 dicembre 2004).
Avv. Marianna Pulice