Il suolo sottostante il condominio è di proprietà comune

di | 29 Aprile 2004
Dall’interpretazione dell’art. 1117 c.c., nonché del combinato disposto di tale norma con l’art. 840 c.c., lo spazio sottostante al suolo su cui sorge un edificio in condominio, in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini, risulta essere di proprietà comune, con la conseguenza che resta inibito al singolo condomino, ex art. 1102 c.c., assoggettarlo a proprio uso esclusivo, impedendone il pari uso agli altri condomini, senza il consenso di costoro.

Cassazione , sez. II civile, sentenza 28.04.2004 n. 8119

Fatto

M. P., proprietaria nello stabile sito in Settala, Via Garibaldi n. 3, di un locale sito a piano terra, che era stato più volte allagato, poiché gli interventi effettuati dal Condominio non erano valsi ad eliminare l’inconveniente, eseguiva lavori, autorizzati dal Comune, di rimozione del pavimento e di rifacimento dello stesso con impermeabilizzazione, dopo aver abbassato il suo livello di cm. 40, con l’ovvia conseguenza di portare l’altezza del locale a m. 2,70, rispetto a quella originaria di m. 2,30.

Con delibera del 4.9.1991 l’assemblea del Condominio intimava alla P. il ripristino delle condizioni originarie del locale, contestando, in particolare, l’abbassamento del livello del pavimento (e destinazione del locale a negozio) in violazione del regolamento condominiale, ponendo a carico della stessa alcune maggiori spese comuni e quelle di convocazione dell’assemblea stessa.

La P. impugnava tale delibera convenendo il Condominio davanti al Tribunale di Milano, il quale respingeva la domanda principale dell’attrice circa l’annullamento della delibera in ordine all’abbassamento del suolo (e mutamento di destinazione del locale), accogliendola solo in ordine alle spese addebitate.

Il gravame proposto dalla P. era rigettato dalla Corte d’appello di Milano, la quale, con sentenza n. 3231/99, ha osservato, fra l’altro, per quel che ancora interessa, che il rilevante abbassamento del livello del pavimento ha comportato l’esclusiva appropriazione da parte della P. di una porzione del sottosuolo comune, di per sé illegittima ex art. 1102, prima parte, c.c.; invero, attesa la misura dell’abbassamento di livello, lo scavo ha determinato non solo una riduzione dello spessore del piano di calpestio (inteso come manufatto distinto dalle fondazioni e di proprietà esclusiva del proprietario del piano terreno), ma anche l’invasione del sottosuolo di proprietà comune; che, infine, l’ottenuto ampliamento del volume della proprietà esclusiva a scapito di quello della proprietà comune non è stato reso necessario per ovviare alla persistente umidità del locale (ciò che nessun parere tecnico ha affermato).

Avverso tale sentenza la P. ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi ad unico articolato motivo, illustrato da memoria.

II Condominio ha resistito con controricorso.

Diritto

1. Con unico motivo la ricorrente deduce violazione degli artt. 1117 e 1102 c.c.: motivazione contraddittoria sul punto decisivo consistente nell’affermata invasione, da parte della P., del sottosuolo di proprietà comune: motivazione omessa sul punto decisivo rappresentato dall’accertamento delle dimensioni e della destinazione dello spazio posto fra il piano di calpestio del magazzino e il piano di posa delle fondazioni: motivazione contraddittoria o insufficiente sul punto decisivo della necessità di abbassare il livello del piano di calpestio del locale, al fine di rimuoverne l’umidità (ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.).

A) Sostiene la ricorrente che “il suolo su cui sorge il fabbricato” – oggetto di proprietà comune – non prenderebbe inizio, in linea verticale discendente, dal pavimento del locale posto al piano terreno dell’edificio condominiale, ma sarebbe l'”area di terreno sita in profondità – sottostante, cioè, la superficie alla base del fabbricato – sulla quale posano le fondamenta dell’immobile”, vale a dire la parte infima del fabbricato, perché soltanto quella assolverebbe la funzione di dare sostegno all’edificio. Pertanto, erroneamente l’impugnata sentenza avrebbe ravvisato uno sconfinamento nella proprietà comune, per essere stato abbassato il livello del pavimento del locale al piano terra, senza considerare che tale sconfinamento si sarebbe potuto verificare ove fosse stato invaso (cioè superato in linea verticale discendente) il piano ove poggiano le fondamenta dell’edificio, dovendo ritenersi lo spazio compreso fra il piano di calpestio (del locale posto a piano terra) e il piano di posa delle fondamenta del fabbricato destinato al servizio esclusivo dell’unità immobiliare al piano terreno.

B) Aggiunge la ricorrente che, anche a voler ammettere che vi sia stato sconfinamento nella proprietà comune, non per questo l’escavazione costituirebbe innovazione vietata, perché non avrebbe determinato l’inservibilità del bene comune all’uso e al godimento cui esso è destinato

C) Inoltre, ad avviso della ricorrente, la sentenza impugnata esprimerebbe una posizione perplessa circa la conseguenza dell’opera nuova sullo “spessore” del piano di calpestio, non dicendo se in aumento o in diminuzione, e, comunque, non spiegando in che modo esso avrebbe determinato l’invasione del sottosuolo di proprietà comune.

D) Né l’impugnata sentenza avrebbe dato risposta alla questione fondamentale circa la dimensione, destinazione e natura dello spazio posto fra il piano di calpestio del locale (di proprietà individuale) e il piano di posa delle fondazioni (di proprietà condominiale), al fine di poter affermare che la proprietà comune del sottosuolo sarebbe stata invasa per quaranta centimetri.

E) Infine, del pari contraddittoria o almeno insufficiente sarebbe la motivazione della sentenza laddove afferma che l’umidità del locale sarebbe stata rimossa non dallo sconfinamento in senso verticale, ma dalle tecniche costruttive realizzate per la nuova opera (impermeabilizzazione del nuovo sottofondo), senza dire se tali nuove tecniche escludessero la necessità dell’abbassamento del piano di calpestio.

2. Alla disamina del motivo, nelle surriportate connesse articolazioni, da considerare congiuntamente, conviene premettere la sintetica esposizione dei principi di diritto che indettano la decisione.

2.1. La prima questione è quella del significato da attribuire al termine “suolo” su cui sorge l’edificio, che, ai sensi dell’art. 1117 n. 1 c.c., è oggetto di proprietà comune, se il contrario non risulta dal titolo.

2.2. E’ stato detto che, In tema di condominio, il possesso delle parti comuni, inteso come esercizio di fatto corrispondente al diritto, si atteggia diversamente a seconda che le cose, gli impianti ed i servizi siano oggettivamente utili alle singole unità immobiliari, cui sono collegati materialmente o per destinazione funzionale (come ad esempio suolo, fondazioni, muri maestri, facciate, tetti, lastrici solari, oggettivamente utili per la statica), oppure siano utili soggettivamente, e perciò la loro unione materiale o la destinazione funzionale ai piani o porzioni di piano dipende dall’attività dei rispettivi proprietari (come ad esempio scale, portoni, anditi, portici, stenditoi, ascensore, impianti centralizzati per l’acqua calda o per aria condizionata). Infatti, nel primo caso l’esercizio del possesso consiste nel beneficio che il piano o la porzione di piano – e soltanto per traslato il proprietario – trae da tali utilità; nel secondo caso il possesso si esercita tramite l’espletamento della predetta attività da parte del proprietario (Cfr. Cass. 25.1.2000, n. 855; 1.3.2000, n. 2255).

2.3. Nella categoria delle cose comuni suscettibili di utilità oggettiva rientra il “suolo” su cui sorge l’edificio: espressione che, secondo quanto elaborato in giurisprudenza, sta ad indicare quella porzione di terreno sulla quale insiste l’intero edificio e, immediatamente, la parte infima di esso, dove sono infisse le fondazioni (v. ex plurimis: Cass. 19.12.2002, n. 18091; 3.11. 2000, n. 14350; 23.7.1994, 6884).

2.4. Ed in effetti, il termine “suolo” su cui sorge l’edificio, con riferimento al quale l’art. 1117 n. 1 c.c. stabilisce una presunzione di comunione, va inteso, in conformità del significato che di esso è proprio, sia nel linguaggio comune sia in quello tecnico, come area di terreno ossia superficie, delimitata in senso orizzontale e verticale, sulla quale poggia il pavimento del pianterreno e insiste, sviluppandosi in altezza, la parte fuori terra dell’intero edificio.

In senso orizzontale, come larghezza e lunghezza, il suolo su cui sorge l’edificio è quello occupato e circondato dalle fondamenta e dai muri perimetrali dell’edificio stesso; in senso verticale, come profondità, è quello immediatamente al di sotto di tale area superficiaria.

Pertanto il suolo su cui sorge l’edificio non è la superficie a livello del piano di campagna, che viene scavata per la posa delle fondamenta, né la superficie a base di queste, bensì quella porzione di terreno sulla quale viene a poggiare l’intero edificio e, immediatamente, la parte infima dello stesso. 2.5. Lo spazio sottostante al suolo su cui sorge l’edificio, posto tra i muri maestri, i pilastri o altre opere che integrano le fondazioni e fino a tale livello, rientra nel concetto di sottosuolo; e, ancorché non menzionato espressamente dall’art. 1117 c. c., deve considerarsi, in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini, oggetto di proprietà comune, in virtù del combinato disposto di detta norma e dell’art. 840 c.c. e con riguardo alla funzione di sostegno ugualmente svolta dal sottosuolo, indipendentemente dalla destinazione a servizi di interesse collettivo o dalla possibilità di siffatta utilizzazione (v. fra tante: Cass. 19.3.1996, n. 2295; 11.11.1986, n. 6587; 27.5.1977, n. 2183).

3. Per l’esclusione della presunzione di proprietà comune, di cui al citato art. 1117 c.c., non é necessario che il contrario risulti in modo espresso dal titolo, essendo sufficiente che da questo emergano elementi univoci che siano in contrasto con la reale esistenza di un diritto di comunione, dovendo la citata presunzione fondarsi sempre su elementi obiettivi che rivelino l’attitudine funzionale del bene al servizio o al godimento collettivo, con la conseguenza che quando il bene, per le sue obiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all’uso o al godimento di una sola parte dell’immobile, che forma oggetto di un autonomo diritto di proprietà ovvero risulti comunque essere stato a suo tempo destinato dall’originario proprietario dell’intero immobile ad un uso esclusivo, in guisa da rilevare – sempre in base ad elementi obiettivamente rilevabili, secondo l’incensurabile apprezzamento dei giudici di merito – che si tratta di un bene avente una propria autonomia e indipendenza, non legato da una destinazione di servizio rispetto all’edificio condominiale, viene meno il presupposto dell’accennata presunzione (cfr. Cass. 7.8.2002, n. 11877; 15.6.2001, n. 8152; 29.12.1987, n. 9644).

4. Le limitazioni poste dall’art. 1102 c.c. al diritto di ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune, rappresentate dal divieto di alterare la destinazione della cosa stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, vanno riguardate in concreto, cioè con riferimento alla effettiva utilizzazione che il condomino intende farne e alle modalità di tale utilizzazione, essendo, in ogni caso, vietato al singolo condomino di attrarre la cosa comune o una parte di essa nell’orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla in tal modo alla possibilità di godimento degli altri condomini (cfr. Cass. 22.3.2001, n. 4135; 26.1. 2000, n. 855).

5. Alla luce dei principi esposti, la sentenza impugnata si sottrae alle doglianze, in quanto risulta fondata su premesse esatte e motivata in modo logicamente corretto e sufficiente. Invero, la Corte distrettuale, come si è evidenziato in parte espositiva, ha ritenuto che la porzione di terreno sottostante al pavimento del piano terra è di proprietà comune e l’opera di escavazione di cm. 40 eseguita dalla P. in profondità del sottosuolo, per ingrandire il suo locale a piano terra (mediante aumento dell’altezza originaria da m. 2,30 a m. 2,70), costituisce attività lesiva del diritto di comproprietà.

Così decidendo il giudice di merito si è correttamente attenuto all’interpretazione che dell’art. 1117 c.c., nonché del combinato disposto di tale norma con l’art. 840 c.c., questa Corte ha da tempo fornita, come sopra esposto, allorché ha ritenuto lo spazio sottostante al suolo su cui sorge un edificio in condominio, in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini, di proprietà comune, con la conseguenza che resta inibito al singolo condomino, ex art. 1102 c.c., assoggettarlo a proprio uso esclusivo, impedendone il pari uso agli altri condomini, senza il consenso di costoro (v. fra l’altro: Cass. 3.11.2000, n. 14350; 24.8.1998, n. 8346; 30.12.1997, n. 13102).

6. Poiché l’uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante è sottoposto dall’art. 1102 c.c. a due limiti fondamentali consistenti nel divieto di alterare la destinazione della cosa comune e nel divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (Cass. 3.7.2000, n. 8886), non rileva che non vi sia stata alterazione della destinazione di detto sottosuolo, poiché sussiste la violazione dell’altro divieto (impedimento del pari uso).

Parimenti non rileva che, al momento dell’assoggettamento ad uso esclusivo, detto sottosuolo non fosse materialmente utilizzato in qualche modo da parte del condominio, perché, da un lato ne sussiste ab origine l’utilità comune in ragione della funzione di sostegno che esso svolge contribuendo alla stabilità dell’edificio, e, dall’altro, è sufficiente la mera possibilità di utilizzazione, questa rappresentando oggetto di facoltà estrinsecabile anche nella scelta di lasciarlo temporaneamente privo di qualsiasi specifica utilizzazione.

7. Le altre doglianze, attinenti a considerazioni di merito circa lo spessore del piano di calpestio e la tecnica di impermeabilizzazione ai fini della rimozione dell’umidità, sono inammissibili, in questa sede di legittimità.

8. Alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso va, quindi, rigettato, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 1.100,00, di cui Euro 1.000,00 per onorario, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2^ Sezione Civile, l’11 novembre 2003.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 28 APRILE. 2004.

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