Il sottosuolo dell’edificio è di proprietà comune

di | 9 Marzo 2006
Il principio sancito dall’art. 840 cod. civ., secondo cui “la proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene, e il proprietario può fare qualsiasi escavazione od opera che non rechi danno al vicino”, non è applicabile nei condomini, poichè “il suolo su cui sorge l’edificio”, per il disposto dell’art. 1117 cod. civ., è “oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani”. Il sedime del fabbricato costituisce dunque il limite ultimo delle proprietà individuali, le quali non si espandono usque ad infera, neppure se sono ubicate nel piano più basso (o in una sua porzione).
Corte di Cassazione Sentenza 09 marzo 2006, n. 5085

Svolgimento del processo

 

B.V. e D.S., comproprietarie di una porzione di un fabbricato sito in (OMISSIS), citarono a comparire davanti al Tribunale di Pistola D.M.G. e M.C.L., rispettivamente nuda proprietaria e usufruttuaria dell’altra parte dell’edificio, chiedendo tra l’altro – per quanto ancora rileva in questa sede – che fossero condannate alla riduzione in pristino del piano interrato dell’immobile, che avevano modificato sia ampliando un loro locale in altezza (mediante l’abbassamento del pavimento) e in superficie (mediante la riduzione dello spessore di un muro maestro) sia diminuendo la larghezza del corridoio di accesso a una cantina appartenente alle attrici. Le convenute si difesero sostenendo la piena legittimità del proprio operato.

All’esito dell’istruzione della causa, con sentenza del 14 settembre 1998 il Tribunale accolse solo parzialmente la domanda, condannando le convenute a ripristinare il passaggio nel corridoio secondo la sua ampiezza originaria.

Impugnata in via principale da B.V. e D. S., incidentalmente da D.M.G. (era intanto deceduta M.C.L.), la decisione è stata integralmente confermata dalla Corte di Appello di Firenze, che con sentenza del 12 gennaio 2001 ha rigettato entrambi i gravami.
D.S., anche quale procuratore generale di B. V., ha proposto ricorso per Cassazione, in base a tre motivi.
D.M.G. si è costituita con controricorso, formulando a sua volta due motivi di impugnazione in via incidentale.

Motivi della decisione

In quanto proposte contro la stessa sentenza, le due impugnazioni vanno riunite in un solo processo, in applicazione dell’art. 335 cod. proc. civ..

Con il primo motivo del ricorso principale Stefania Desideri, denunciando “insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia” e “mancata e/o errata applicazione artt. 840, 1102 e 1117 del codice civile”, lamenta che la Corte di appello ha confermato il rigetto della domanda di riduzione in pristino, nella parte concernente l’abbassamento del pavimento della cantina interrata di proprietà di D.M.G., erroneamente e ingiustificatamente ritenendo che a costei appartenesse anche il suolo sottostante al livello di calpestio originario del locale.

La doglianza è fondata.

Il principio sancito dall’art. 840 cod. civ., secondo cui “la proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene, e il proprietario può fare qualsiasi escavazione od opera che non rechi danno al vicino”, non è applicabile nei condomini, poichè “il suolo su cui sorge l’edificio”, per il disposto dell’art. 1117 cod. civ., è “oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani”. Il sedime del fabbricato costituisce dunque il limite ultimo delle proprietà individuali, le quali non si espandono usque ad infera, neppure se sono ubicate nel piano più basso (o in una sua porzione).

Che cosa poi debba intendersi per “suolo su cui sorge l’edificio”, è stato chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (v., tra le più recenti, Cass. 28 aprile 2004 n. 8119) nel senso che si tratta della superficie su cui insiste immediatamente la parte infima dello stabile, ossia l’area, delimitata orizzontalmente dalle proiezioni delle mura perimetrali, sulla quale poggia il pavimento del piano più basso, sia che questo emerga in tutto o in parte dal terreno circostante, sia che si trovi più in profondità, in modo da risultare completamente interrato, sicchè in ogni caso non è consentito al proprietario di quel piano (o di una sua porzione) estendere verticalmente il suo dominio, appropriandosi il corrispondente sottosuolo, il quale costituisce anch’esso una delle “parti comuni dell’edificio”.

A questi principi non si è attenuto il Giudice a quo, che li ha bensì richiamati, ma ne ha frainteso la portata, ritenendo lecito l’operato delle originarie convenute, per il fatto che il loro locale interrato è posto “tra le fondamenta” del fabbricato, il cui livello minimo non è stato superato, neppure in seguito all’abbassamento del pavimento. In realtà, alle fondazioni si è fatto riferimento in alcune delle sentenze pronunciate da questa Corte nella materia di cui si tratta, ma soltanto per affermare che il “suolo su cui sorge l’edificio” non si identifica con il “piano di campagna”, se questo è stato scavato per ricavare uno o più piani sotterranei, i quali ben possono appartenere ai singoli, anzichè avere natura condominiale. Ciò tuttavia non esclude che le proprietà individuali restano delimitate verticalmente dalla superficie di appoggio del più basso dei piani dell’edificio, anche quando le fondazioni (intese sia come il prolungamento nel terreno dei muri maestri perimetrali e interni, o dei pilastri portanti, sia come la platea orizzontale che eventualmente collega tali strutture) arrivano ancora più in profondità: corrispondentemente al linguaggio comune e tecnico, l’art. 1117 cod. civ. indica il “suolo” e le “fondazioni” come precise e ben distinte parti dell’edificio, sicchè è arbitrario far coincidere necessariamente il limite inferiore dell’uno con quello che raggiungono le altre. Nè vale osservare, come ha fatto la Corte di appello, che ogni diritto reale è proporzionato all’utilità che il titolare può trame, la quale sussiste, nelle ipotesi come quella in considerazione, per i singoli proprietari del piano più basso, e non per il condominio: la delimitazione dei loro rispettivi diritti è stabilita dalla legge – che include tra le “parti comuni” il “suolo su cui sorge l’edificio”, inteso nel senso che si è detto, con inclusione del relativo sottosuolo – sicchè non è consentito all’interprete sostituirla con una propria e diversa.

Con il secondo motivo del ricorso principale D.S. si duole di “omessa e/o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia” e di “mancata e/o erronea applicazione artt. 1102 e 1117 del codice civile”, per avere la Corte di Appello confermato il rigetto della domanda di riduzione in pristino, anche relativamente all’ampliamento in senso orizzontale della cantina di D.M.G., effettuato mediante la riduzione dello spessore di un muro maestro: opera che secondo la ricorrente avrebbe dovuto essere considerata come comportante un impiego illegittimo di un bene comune.

Anche questa censura va accolta.

In proposito la Corte di appello ha ritenuto essersi trattato di un uso lecito, alla stregua del disposto dell’art. 1102 cod. civ., in quanto rispettoso sia della normale destinazione della cosa, sia della possibilità di un’altrui paritaria utilizzazione.

L’assunto non è condivisibile, poichè dall’ambito delle attività consentite dalla norma citata vanno senz’altro escluse quelle che si risolvono nell’attrazione di un bene comune o di una sua parte nella sfera di disponibilità esclusiva di un singolo (v., per tutte, Cass. 14 ottobre 1998 n. 10175), come appunto avviene quando si diminuisce la consistenza originaria di un muro maestro e si ingloba il volume vuoto così ottenuto in una porzione immobiliare di proprietà individuale: di quello spazio, in tal modo, viene sia alterata la destinazione, sia impedito un paritario uso da parte degli altri condomini, i quali non vi hanno accesso. Non sono dunque pertinenti i precedenti giurisprudenziali richiamati nella sentenza impugnata, i quali si riferiscono tutti a impieghi che consentono bensì di ricavare da cose comuni una particolare utilità aggiuntiva, ma risultano compatibili sia con la destinazione del bene, sia con la possibilità di future analoghe utilizzazioni altrui, come l’inserimento di condutture o l’apertura di varchi nei muri maestri.

Il terzo motivo del ricorso principale è privo di autonoma valenza, poichè vi si sostiene che gli errori in cui sono incorsi i giudici di primo e di secondo grado, nel decidere la causa nel merito, si sono riflessi sulle pronunce, rispettivamente di parziale e di totale compensazione, adottate in ordine alle spese di giudizio.
Del ricorso incidentale il pubblico ministero ha pregiudizialmente contestato l’ammissibilità, rilevando che il mandato rilasciato da D.M.G. al suo difensore si riferisce soltanto al “proporre controricorso”, non anche all’impugnare la sentenza di appello.

L’eccezione non può essere accolta, poichè la giurisprudenza di questa Corte (v., da ultimo, Cass. 25 gennaio 2005 n. 1428) è ormai univocamente orientata nel senso che la procura alla lite, pur quando presenta carenze o incongruenze, deve comunque intendersi come relativa al ricorso per Cassazione come proposto, se è conferita, come nella specie, al suo margine, poichè l’incorporazione dei due atti in uno stesso contesto documentale implica la reciproca loro riferibilità.

Con il primo motivo del ricorso incidentale D.M.G., denunciando “insufficiente e/o contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia” e “mancata e/o erronea applicazione dell’art. 1066 c.c.”, sostiene che la domanda di riduzione in pristino proposta da B.V. e D.S. avrebbe dovuto essere rigettata anche per quanto riguarda la riduzione della larghezza del corridoio del piano cantinato, da cui “non deriva alcuna lesione del contenuto essenziale della servitù”, quale era stata costituita in favore delle originarie attrici, dato che “la larghezza di cm 90 consente agevolmente il passaggio pedonale”.

La censura va disattesa.

Si verte in tema di accertamenti di fatto e di apprezzamenti di merito, insindacabili in questa sede se non sotto il profilo dell’omissione, insufficienza, o contraddittorietà della motivazione. Ma da questi vizi la sentenza impugnata è immune, poichè la Corte di appello ha adeguatamente dato conto delle ragioni della decisione sul punto, osservando: “Il corridoio di ingresso alla cantina era originariamente più largo, anche perchè privo di muri divisori, ed è stato ristretto ad una larghezza di soli novanta centimetri. E’ vero che questa larghezza è sufficiente per transitarvi a piedi, ma certamente limita il godimento naturale delle appellanti perchè non consente il trasporto di masserizie e mobilia o di oggetti di grandi dimensioni e quindi esclude una delle più normali funzioni attribuite ai locali cantina, che sono di solito destinati a deposito di ogni sorta di beni, spesso di apprezzabili dimensioni, difficili da trasportare in spazi o corridoi angusti.

L’impossibilità di utilizzare in modo consueto la cantina, per l’accesso alla quale la servitù è stabilita, diminuisce apprezzabilmente l’utilitas della servitù e costituisce quindi certamente una restrizione illegittima delle facoltà di esercizio della servitù, che giustifica la pronuncia di riduzione in pristino”. Nè la ricorrente incidentale ha opposto alcunchè a queste esaurienti e logicamente coerenti argomentazioni, se non l’assiomatica affermazione che si è sopra trascritta.

Il secondo motivo del ricorso incidentale ha contenuto analogo a quello del terzo motivo del ricorso principale ed è quindi anch’esso privo di autonomia.

Riuniti pertanto i ricorsi, accolto il principale, rigettato l’incidentale, la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altro Giudice – che si designa in una diversa sezione della Corte di appello di Firenze – cui viene anche rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata; rinvia la causa ad altra sezione della Corte di Appello di Firenze, cui rimette anche la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2005.
Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2006.

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