Il rifiuto, protattosi per ben sette anni, di intrattenere normali rapporti affettivi e sessuali con il coniuge costituisce gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner e situazione che oggettivamente provoca senso di frustrazione e disagio, spesso causa, per come è notorio, di irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico".
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6276 del 23 marzo 2005.
Cassazione
Sezione prima civile
Sentenza 23 marzo 2005 n. 6276
Svolgimento del processo
Con sentenza del 30 maggio 2000, il tribunale di Trapani pronunciò la separazione personale dei coniugi Piera N. e Francesco G., addebitandola a quest’ultimo e adottando conseguenti statuizioni in ordine all’affidamento dei figli minori e agli aspetti economici.
Avverso tale sentenza il G. propose appello chiedendo, tra l’altro, nuovamente che la separazione, a lui precedentemente imputata, fosse invece addebitata alla moglie.
Il gravame fu respinto dalla Corte d’appello di Palermo, la quale osservò che, contrariamente a quanto sostenuto con l’atto impugnatorio, il primo giudice aveva tenuto presenti tutte le dichiarazioni rese dall’appellante in sede di interrogatorio formale, ivi compreso il riferimento al comportamento, non certo conforme ai doveri di solidarietà verso il marito, assunto dalla N. quando si era schierata col fratello che aveva accusato il G. di essersi appropriato di somme appartenenti alla Cooperativa edilizia da cui era stato realizzato l’appartamento coniugale e della quale era divenuto presidente. Il tribunale aveva infatti valutato l’atteggiamento della N., ritenendo tuttavia del tutto sproporzionata la reazione del G., rifiutatosi per ben sette anni di intrattenere normali rapporti effettivi e sessuali con la moglie. Adottando tale conclusione, il primo giudice aveva fatto retta applicazione dei consolidati principi, invocati dallo stesso appellante, in materia di addebitabilità della separazione, che impongono di valutare comparativamente i comportamenti dei coniugi al fine di accertare quale dei due sia o se entrambi siano causa efficiente dell’avvenuta separazione. Sempre al contrario di quanto affermato con l’atto di appello, il G., in sede di interrogatorio formale, aveva sostenuto di avere interrotto i rapporti con la moglie proprio in reazione alla condotta di questa, così implicitamente affermando che l’interruzione era stata frutto di una sua precisa determinazione. Pienamente da condividere era l’argomento utilizzato dai primi giudici in ordine alla sproporzione tra il comportamento del marito e la risalente condotta della N., improntata si a mancanza di fiducia, e quindi di solidarietà, nei confronti del coniuge, ma certamente non integrante di per sé una trasgressione grave dei doveri coniugali, tale da sorreggere la pronuncia di addebito.
Contro tale sentenza Francesco G. ha proposto ricorso per Cassazione, sostenuto da un valido motivo. Piera N. resiste con controricorso in seguito illustrato con memoria.
Motivi della decisione
La controricorrente ha dedotto la inammissibilità del ricorso, risultandovi indicato un codice fiscale non corrispondente a quello di parte ricorrente.
Oltre che speciosa, l’eccezione è del tutto inconsistente.
L’errata indicazione del codice fiscale nell’atto introduttivo del giudizio, peraltro non prevista da alcuna disposizione del codice di rito, non può non avere alcun effetto invalidante l’atto medesimo sotto il profilo della identificazione del suo autore. Del resto, anche l’omessa o erronea indicazione dei requisiti di cui all’articolo 143 comma 1 Cpc produce nullità (e non certo inammissibilità) soltanto se comporti l’impossibilità di identificare con sicura certezza il postulante (Cassazione 3745/94, 2895/97). Senza considerare, poi, che qualunque ipotetica nullità dell’atto ricorso, riconducibile a quelle previste e regolate dall’articolo 164 Cpc, comma 1, sarebbe stata nella specie sanata per effetto del raggiungimento dello scopo, identificabile nello svolgimento, da parte della N., di compiute difese nel merito della controversia, per mezzo del tempestivo controricorso.
Con l’unico motivo del ricorso, denunziando la violazione degli articoli 143 e 151 Cpc, il G. lamenta che la corte palermitana, al pari del tribunale, ha omesso di valutare comparativamente i comportamenti dei coniugi aifini della dichiarazione di addebito e valorizzato soltanto alcune delle affermazioni da lui fatte in sede di interrogatorio formale. Da quelle pretermesse si sarebbe potuto evincere che la decisione di interrompere ogni rapporto, anche di natura sessuale, con la moglie, pur continuando i coniugi a vivere sotto lo stesso tetto, era stata determinata dalla condotta di quest’ultima. Facendo venire sono l’affectio maritalis, la consorte aveva, infatti, preso le difese del fratello, che, per difendersi dalle proprie responsabilità gestionali, lo aveva ingiustamente accusato di essersi appropriato di somme appartenenti alla cooperativa edilizia che aveva costruito la casa coniugale. Da nessun atto del giudizio, soggiunge il G., era lecito inferire che l’interruzione dei rapporti sessuali fosse stata frutto di una determinazione unilaterale, e ancor meno da ricollegare a una intrapresa relazione adulterina. Il ricorrente imputa, infine, alla corte territoriale di avere ritenuto offensivo per la moglie l’atteggiamento affettuoso da lui tenuto verso una collega d’ufficio, laddove null’altro era emerso in corso di causa se non che egli era solito viaggiare con la donna per recarsi al posto di lavoro e che in un’occasione aveva ritirato presso l’ufficio postale una raccomandata a lei diretta.
Il motivo appare inammissibile nella sua formulazione, in quanto, nonostante il richiamo formale a vizi di violazione di legge, si risolve in una serie di censure di mero fatto, diretta a contrastare la valutazioni compiute nella sentenza impugnata e a proporre una diversa ricostruzione dei fatti, ed una diversa lettura del materiale probatorio acquisito, del quale si sostiene la idoneità a dimostrare la responsabilità del G. nel fallimento dell’unione coniugale.
In particolare, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, la corte di merito non ha affatto disatteso il consolidato orientamento di questa Corte secondo il quale l’indagine sull’intollerabilità della convivenza deve essere svolta sulla base della valutazione globale e comparativa dei comportamenti di entrambi i coniugi, dacchè la condotta dell’uno non può essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro, e solo tale comparazione consente di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano rivestito, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crsi matrimoniale (vedi, tra le altre, Cassazione 14162/01, 279/00, 2444/99, 7817/97, 3511/94, 961/92). Per vero, il giudice a quo ha avviato e condotto la sua indagine proprio seguendo questa prospettiva. Sennonché egli è arrivato alla ineccepibile conclusione che il comportamento provatamente mantenuto dal G., costituendo lesione alla dignità, di donna e di moglie, della N., e non potendo giustificarsi per l’evidente sproporzione, come atto di ritorsione alla dedotta provocazione dell’altro coniuge, era tale da rendere di per se addebitabile la separazione, sottraendosi, quindi, al giudizio comparativo.
Ciò in applicazione di altro principio su cui questa Suprema Corte è uniformante orientata. E’ stato infatti più volte affermato che nell’ipotesi in cui i fatti accertati a carico di un coniuge integrino violazione di norme di condotta imperative ed inderogabili, in quanto si traducano nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale e la dignità dell’altro coniuge, così superando la soglia minima di solidarietà e di rispetto per la personalità del partner, essi sfuggono ad ogni giudizio di comparazione, non potendo in alcun modo essere giustificati come atti di reazione o ritorsione rispetto al comportamento dell’altro (Cassazione 15101/04, 5397/89, 6256/87, 2809/78).
Quindi, la valutazione dei comportamenti dei coniugi effettuata dal giudice a quo è conforme a diritto non potendosi dubitare che il rifiuto, protattosi per ben sette anni, di intrattenere normali rapporti affettivi e sessuali con il coniuge costituisca gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner e situazione che oggettivamente provoca senso di frustrazione e disagio, spesso causa, per come è notorio, di irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico. Consimile contegno, pertanto, configura e integra violazione del dovere di assistenza morale e materiale sancito dall’articolo143 Cc, nella cui nozione sono da ricomprendere tutti gli aspetti di sostegno nei quali, con riferimento anche alla sfera effettiva, si estrinseca il concetto di comunione; si tratta, peraltro, di un dovere che non può non essere il riflesso precettivo di quel legame sentimentale sul quale realmente può reggersi e prosperare il rapporto di coppia. Ove volontariamente posto in essere, il rifiuto alla assistenza affettiva ovvero alla prestazione sessuale non può che costituire addebitamento della separazione, rendendo impossibile all’altro il soddisfacimento delle proprie esigenze di vita dal punto di vista affettivo e l’esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato.
Oltre che condotto secondo corretti criteri giuridici, l’iter arqomentativo espresso dal giudice del merito è privo di mende logiche e sorretto da stringente e esaustiva motivazione. Esso sfugge, pertanto, alle censure mosse dal ricorrente che, come anticipato, pretende di sottoporre al sindacato di questa Corte la valutazione della prova istituzionalmente riservata al giudice del merito.
Inammissibile anche sotto altri profili è infine la doglianza riguardante la valenza offensiva asseritamene attribuita dalla corte palermitana all’atteggiamento del G. verso una collega d’ufficio. In proposito, la Corte territoriale, premesso, con argomentazione chiaramente ad abundantiam, che la corrispondente valutazione del primo giudice era sintonica con giurisprudenza di questa Suprema Corte – per la quale la separazione è addebitabile allorquando, in considerazione dei suoi aspetti esteriori, la relazione del coniuge con estranei dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e comporti quindi offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge – ha solo osservato , in rito, che tale ratio decidendi della pronuncia di prime cure non era stata censurata in modo specifico dal G., limitatosi a rimarcare, con l’atto di gravame, la emersa falsità della circostanza addotta dalla moglie a comprova della relazione extraconiugale (la ricezione a casa della collega di una raccomandata a lei dirett).
In più, la corte palermitana ha ritenuto del tutto in conducente la doglianza formulata dall’appellante dacchè, per la stessa sentenza del tribunale, non era stata raggiunta la prova dell’adulterio.
Ora tale punto della decisione, come detto essenzialmente attinente al rito, e in particolare alla individuazione del devolutum, non è stato censurato con il ricorso dal G., il quale non può riproporre in questa sede la questione relativa alla (presunta) valutazione anche di quell’aspetto dell’atteggiamento tenuto nei confronti del coniuge. Inoltre, la corte territoriale ha posto a base della statuizione di addebitabilità della separazione, quale causa determinante dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza, esclusivamente il comportamento del G., tradottosi nel prolungato rifiuto di avere rapporti sessuali con la moglie, e non certo il contrastante atteggiamento premuroso da costui mantenuto nei confronti di una collega.
Il ricorso va in definitiva dichiarato inammissibile.
Le spese del presente grado seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in euro 3.100,00, di cui euro 3.000,00 per onorari d’avvocato, oltre alla spese generali e agli accessori di legge.
Così deciso in Roma il 24 gennaio 2005.
Depositata in cancelleria il 23 marzo 2005.