RISARCIMENTO DEL DANNO MORALE PER LA MOGLIE SEPARATA DELLA VITTIMA DI UN SINISTRO.
(Sezione Terza Civile – Presidente V. Duva – Relatore R. Perconte Licatese)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
N. G. vedova B., in proprio e nel nome dei figlio (omissis), conveniva in giudizio, innanzi al tribunale di Prato, P. D. e B. G., quali eredi di B. C., indicato come responsabile di un sinistro stradale avvenuto nel marzo 1987, nel quale era morto il rispettivo marito e padre B. C., nonché la Compagnia Tirrena di Assicurazioni s.p.a., per sentirli condannare, in solido, al risarcimento dei danni.
I convenuti contestavano la domanda, chiedendone il rigetto.
Il 9 marzo 1994 il processo veniva interrotto per la messa in liquidazione coatta amministrativa della società (omissis).
La N., in proprio e nella qualità, riassumeva il processo nei confronti della P. e del B., del commissario liquidatore della società (omissis) e della s.p.a. (omissis), quale impresa designata.
Con sentenza del 28 novembre 1994 il Tribunale, dichiarato unico responsabile del sinistro il defunto B., condannava i convenuti, in solido, a pagare agli attori la somma di lire 180.174.000, oltre agli interessi, di cui lire 10.000.000 per il danno morale a favore della N.
Appellava la società Tirrena in liquidazione, notificando l'atto, poi riassunto, alla N., anche per il figlio (omissis), al B. e alla P..
In contumacia di questi ultimi due, la Corte d'Appello di Firenze, con sentenza del 16 aprile 1998, in parziale accoglimento del gravame della Compagnia assicuratrice, ha ritenuto non dovuto l'importo di lire 10.000.000 liquidato alla N. a titolo di danno non patrimoniale, riducendo così il risarcimento a lire 170.174.000, oltre agli interessi come indicati dai primi giudici. Per la cassazione di detta sentenza ricorrono in via principale la (omissis) in liquidazione coatta amministrativa e in via incidentale la N. e il B., ciascuno sulla base di un unico motivo.
Il B. e la P. non hanno svolto difese.
MOTIVI DELLA DECISIONE
E' preliminare la riunione dei ricorsi, ai sensi dell'art. 335 C.p.c..
La ricorrente principale denuncia la violazione degli artt. 112 e 345 C.p.c. e 21 della legge 24 dicembre 1969 n. 990, nonché, in subordine, difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 3 e 5 C.p.c.). Avendo l'appellante fatto presente che l'importo complessivo liquidato dal giudice di primo grado superava il massimale di 200 milioni, la Corte ha disatteso tale doglianza e ha condannato la società assicuratrice anche alla rivalutazione e agli interessi, oltre il limite del massimale, pur in mancanza di una corrispondente domanda di parte in primo grado. Nelle conclusioni degli attori infatti non era nessun riferimento a un comportamento defatigatorio o a un colpevole ritardo della società (omissis) nel pagamento dei danni, così come in nessun modo era stata richiesta la condanna della Compagnia assicuratrice oltre il massimale.
La censura è fondata.
La Corte, dopo aver rilevato l'infondatezza del gravame della società assicuratrice "quanto al capitale" (ciò che ormai più non interessa), osserva che, "se l'appellante (…) ha inteso lamentare che comunque il massimale sarebbe superato per la condanna al pagamento di interessi e spese (cosa che, in particolare nell'atto di impugnazione, non risulta in alcun modo specificato)", la condanna oltre quel limite è giustificata, "stante il comportamento tenuto", pur nell'assoluta evidenza, fin dall'inizio, dell'esclusiva responsabilità del B., e sebbene quindi fosse facilmente prevedibile che, col protrarsi del giudizio, il massimale sarebbe diventato insufficiente. Viceversa la società assicuratrice tenne un comportamento "puramente defatigatorio", e pertanto "deve ora rispondere, anche oltre i limiti del massimale, del maggior danno e degli interessi conseguenti al (colpevole) ritardo nel pagamento di quanto dovuto".
Ebbene, posto che i limiti del massimale possono essere superati nel caso di colpevole inerzia dell'assicuratore nell'adempimento della propria obbligazione nei confronti del danneggiato, resta fermo che in tanto una condanna siffatta può essere pronunciata in quanto vi sia un'espressa, tempestiva domanda dell'avente diritto.
E al riguardo si osserva che sussiste il vizio di ultrapetizione se il giudice condanna l'assicuratore alla rivalutazione del massimale, per svalutazione ed interessi, ove il danneggiato in primo grado chieda il risarcimento di "tutti" i danni derivati dal sinistro, perché tale locuzione non può comprendere quelli conseguenti al colpevole ritardo dell'assicuratore, fatto costitutivo diverso rispetto all'illecito del danneggiante (Cass. 8 maggio 1998 n. 4677; 9 gennaio 1998 n. 133).
Nel caso di specie, per un verso la (omissis), deducendo in appello di essere tenuta solo nel limite del massimale di legge, denunciò la violazione di questo limite sotto ogni possibile profilo (onde non ha ragion d'essere il dubbio espresso in proposito dalla Corte); per altro verso, come gli stessi resistenti ammettono e come è facilmente verificabile negli atti, in prime cure fu chiesto il risarcimento di "tutti i danni", istanza questa che, per quanto testè detto, non può intendersi estesa fino al superamento del massimale per colpevole ritardo dell'assicuratore.
Consegue da quanto detto l'invalicabilità, nel casa concreto, del massimale, oltre il quale non sono dovuti ai danneggiati né interessi né svalutazione.
A loro volta i resistenti, denunciando la violazione dell'art. 2059 C.c. (art. 360 n. 3 e 5 C.p.c.), sostengono che la Corte avrebbe dovuto comunque accordare alla N. il danno non patrimoniale, anche se con una diversa motivazione, tenuto conto dell'estremo disagio materiale e morale in cui ella versa in seguito alla morte del marito. Lo stato di separazione non vale infatti ad escludere che la N. abbia provato sofferenza morale e patema d'animo, onde non le si può negare il "pretium doloris".
Anche questa censura è fondata.
La corte, dopo aver ricordato che il danno morale, tradizionalmente definito come "pretium doloris", viene generalmente ravvisato nell' "ingiusto turbamento dello stato d'animo del danneggiato in conseguenza dell'illecito", o anche nel "patema d'animo o stato d'angoscia transeunte" generato dall'illecito; ha negato il risarcimento a questo titolo alla N. col semplice rilievo "che non può rientrare in tali concetti l'aggravio di responsabilità che deriva alla madre per la crescita e l'educazione del figlio a seguito della morte del padre; aggravio che, nella normalità, deve ritenersi non si concreti in un danno risarcibile".
Questo ragionamento, per le sue evidenti lacune logiche e giuridiche, non può essere condiviso.
Occorre sottolineare che lo stato di separazione personale non è incompatibile, di per sé solo, col risarcimento del danno morale a favore di un coniuge per la morte dell'altro coniuge, dovendo aversi riguardo, oltre che, in generale, alla sua almeno tendenziale temporaneità e alla possibilità, giammai esclusa "a priori", di una riconciliazione che ristabilisca la comunione materiale e spirituale tra i coniugi e l' unità della compagine familiare, altresì, in particolare, alle ragioni che l'hanno determinato e a ogni altra utile circostanza idonea a manifestare se e in qual misura l'evento luttuoso, dovuto all'altrui fatto illecito, abbia provocato, nel coniuge superstite, quel dolore e quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte di una persona più o meno cara.
La Corte, non condividendo (giustamente) la motivazione adottata dal Tribunale a fondamento del danno morale (giustificato solo col peso, venuto a gravare unicamente sulla madre, della responsabilità del mantenimento, dell'educazione e dell'istruzione del figlio omissis), non poteva fermare qui la sua indagine, ma avrebbe dovuto accertare altresì se quell'importo potesse essere accordato, secondo la sua naturale finalità, quale "pecunia doloris", ossia a ristoro e compensazione di un ingiusto turbamento dello stato d'animo patito per la morte del marito, alla stregua del principio dianzi enunciato.
Né a questa ulteriore indagine si frapponevano ostacoli di ordine processuale, non solo perché la stessa appellante (omissis) non si era limitata a denunciare il travisamento del concetto di danno morale operato dal Tribunale, ma aveva esteso il dibattito allo stato di separazione, non espressamente preso in esame dai primi giudici, anche se per farne erroneamente discendere, in ogni caso, l'automatica esclusione del titolo in parola; ma altresì, e soprattutto, perché la N., nella comparsa di risposta, aveva chiesto la conferma di quella voce con una corretta motivazione, osservando, ad ogni buon conto, che il risarcimento le era dovuto nonostante lo stato di separazione, non idoneo a far venir meno, ma al più solo ad attenuare la sofferenza, anche perché recente.
E' il caso di soggiungere che la N., pur sempre vittoriosa in punto di danno morale e indifferente alle ragioni che ne avevano ispirato la concessione, in presenza dell'avversa impugnazione non aveva alcun onere di proporre un appello incidentale al solo scopo di ottenere la correzione della motivazione, ma era unicamente tenuta, come ha fatto, in applicazione analogica dell'art. 346 C.p.c., a manifestare la volontà che a base del risarcimento riconosciutole dal Tribunale fosse posta una ragione diversa.
Consegue all'accoglimento di entrambi i ricorsi la cassazione della sentenza impugnata, col rinvio a un giudice di pari grado, designato nel dispositivo, cui si demanda anche di provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte riunisce i ricorsi;
accoglie il ricorso principale e il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra Sezione della Corte d'Appello di Firenze.