LA CORTE SUPREMA DI CASAZIONE
SEZIONE I CIVILE
SENTENZA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il signor G. L. convenne in giudizio, davanti alla corte di appello di Salerno, la signora I. C., con la quale aveva contratto matrimonio concordatario il 7/1/1989, per sentir dichiarare efficace nello Stato coi conseguenti provvedimenti, la sentenza ecclesiastica pronunziata il 10/6/1994 dal tribunale interdiocesano di Salerno, confermata con decreto collegiale 17/11/1994 del tribunale ecclesiastico regionale campano e resa esecutiva con decreto 3/2/1995 del supremo tribunale della segnatura apostolica, con cui era stata dichiarata la nullità del matrimonio per esclusione dell’obbligo di fedeltà (bonum fidei) da parte di esso attore.
Istituitosi il contraddittorio, I. C. contestò la domanda e chiese, in subordine, l’attribuzione di congrua indennità, ai sensi dell’art. 129- bis, c.c. [1].
Il procuratore generale della Repubblica presso detta corte concluse per la parziale dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica, nella parte in cui non contrasta con altra pronunzia del tribunale italiano, ai sensi dell’art. 797, 1° co., n. 5 e 6, c.p.c. [2].
Con sentenza depositata il 23/3/2001 la corte d’appello di Salerno rigettò la domanda proposta dal L., avendo ritenuto che, nel caso specifico era contraria all’ordine pubblico interno italiano, non emergendo dagli atti la prova certa che la riserva mentale del nubendo, sull’esclusione dell’obbligo di fedeltà, era conosciuta o conoscibile, mediante l’uso di ordinaria diligenza, da parte dell’altro contraente e che ciò era in contrasto coi principi di tutela dell’affidabilità e della buona fede nei rapporti giuridici, considerati inderogabili nel nostro ordinamento.
Per la cassazione di tale sentenza G. L. propone ricorso con un solo motivo, illustrato anche con memoria, cui resiste, mediante controricorso, I. C.
Il procuratore generale della Repubblica presso la corte d’appello di Salerno, intimato, non svolge difese in questo giudizio.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di gravame il ricorrente censura la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360, 1° co., n. 5, c.p.c., per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.
Sostiene che il contrasto fra la pronunzia ecclesiastica e l’ordine pubblico interno italiano, sotto l’aspetto dell’incolpevole ignoranza, da parte della C., della riserva mentale da cui era asseritamente affetto il consenso di esso ricorrente per esclusione del bonum fidei, era stato indebitamente ed illogicamente rilevato dalla corte territoriale, la quale lo aveva desunto dall’asserita mancanza di elementi probatori indicativi della conoscenza di tale riserva da parte della donna, senza citare le fonti processuali e senza argomentare le ragioni del suo convincimento.
Più in particolare, la sentenza impugnata meriterebbe censura, secondo il ricorrente, per essere giunta ad escludere la conoscenza o la conoscibilità, da parte della C., della suddetta riserva, omettendo di attribuire il giusto peso alle risultanze probatorie emerse nel corso del processo canonico, riportate nella sentenza delibanda, da cui sarebbe evincibile la conclusione contraria, in quanto dimostrano che la nubenda era edotta della concomitante relazione intrattenuta con altra donna da esso L., palesemente privo della seria volontà di sciogliere tale legame; e che ella si era ugualmente indotta a sposarlo solo per aver confidato nell’intervento favorevole e nel sostegno della futura suocera, rivelatosi però insufficiente a far cessare la relazione e ad impedire che i coniugi litigassero poi frequentemente per tale motivo, come attestato da familiari della stessa C.
La sentenza perverrebbe quindi, secondo il ricorrente, alla suddetta conclusione solo in base alla circostanza, non dimostrata ed anzi smentita da alcuni testi, che la tresca non era di pubblico dominio.
La corte di merito afferma che non si evince alcun elemento dal quale possa ritenersi la conoscenza o la conoscibilità della riserva da parte della C; che anzi la donna lungi dalla consapevolezza della anomalia del vincolo matrimoniale fu raggirata dal L. sia prima che dopo le nozze rimanendo vittima della malafede del coniuge; sicchè devesi escludere che ella abbia conosciuto con certezza la riserva del L. o che abbia potuto conoscerla usando l’ordinaria diligenza, tenuto conto da una parte delle promesse del L. e dall’altra della circostanza che il rapporto extraconiugale non era manifesto.
Tali affermazioni sono sorrette dalla circostanze seguenti, valutate dalla corte d’appello: la C. aveva dichiarato che non avrebbe mai sposato il L, se avesse saputo che costui intratteneva rapporti con altra donna, e che si era convinta delle intenzioni oneste del fidanzato, avendole egli giurato amore e fedeltà ed avendola assicurata di aver posto termine alla avventura con l’altra (giuramenti ed assicurazioni rilevatisi vani, dopo il matrimonio); lo stesso L. escluse di aver comunicato alla futura moglie, rassicurata in tal senso anche dalla di lui madre, le proprie riserve in ordine alla fedeltà matrimoniale; tutti i testi escussi avevano riferito che la concomitante relazione con altra donna (interrotta col matrimonio, poi ripresa e divenuta occasione di frequenti litigi fra coniugi) non era di pubblico dominio.
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, per le seguenti considerazioni.
La sentenza impugnata prende le mosse dalla considerazione, conforme a costante giurisprudenza di questa suprema corte (fra le altre, Cass. nn. 10143/2002, 4457/2001, 198/2001, 6308/2000, 4311/1999), che la delibazione di sentenza ecclesiastica, dichiarativa della nullità del matrimonio per esclusione di uno dei bona matrimonii da parte di un dei nubendi, è impedita, per contrasto con l’ordine pubblico interno, dal fatto che tale riserva non sia conosciuta, o non sia conoscibile mediante normale diligenza, dall’altro, in spregio del principio di buona fede e di affidamento incolpevole nella validità del negozio: principio essenziale ed inderogabile nell’ordinamento italiano.
In conseguenza di tale condivisa impostazione, il giudice della delibazione deve verificare la compatibilità con l’ordine pubblico interno, sotto il profilo menzionato, senza procedere al riesame del merito ed all’ammissione di nuovi mezzi di prova, ma ricavando il proprio convincimento dagli atti del processo canonico (Cass. nn. 2530/1998, 2330/1994).
L’interpretazione e l’apprezzamento, a questo fine, dei fatti acclarati dal giudice ecclesiastico sono insindacabili in sede di legittimità, salvo che la motivazione del giudice a quo si scosti da un logico e corretto iter argomentativo (Cass. n. 6551/1998).
Il ricorrente critica genericamente la conclusione di rigetto dell’istanza di delibazione, sostenendo che essa si porrebbe in contrasto con alcune risultanze probatorie (sintetizzate al punto 5.2), evincibili dal processo canonico e dalla sentenza che lo concluse, senza peraltro riportare in ricorso, in modo completo e specifico, il contenuto di tali deposizioni, in omaggio al principio di autosufficienza del ricorso stesso (Cass. nn. 7938/2001, 11386/1999, 8249/1997, 1161/1995, 1860/1992).
A questo primo profilo d’inammissibilità del motivo occorre aggiungere che, ferma restando l’insindacabilità del merito (v. punto 7.2), del giudizio sull’effettiva conoscenza (o conoscibilità, mediante normale diligenza) della riserva mentale del nubendo sul dovere di fedeltà, la critica (astrattamente ammissibile) portata dal ricorrente all’impianto logico della sentenza impugnata è inconsistente.
Invero, il convincimento della corte di merito circa l’ignoranza incolpevole, da parte della C., della suddetta riserva mentale, è sufficientemente supportato sul piano logico (senza poterne verificare, in questa sede, la congruità intrinseca sul piano del merito) dal fatto di avere costei potuto prudentemente confidare nella validità del matrimonio, resa credibile dai giuramenti dell’uomo e dalle assicurazioni della futura suocera (punto 5.4) l’altro elemento, costituito dal fatto chela relazione, secondo alcune testimonianze, contestate dal ricorrente, non era di pubico dominio, risulta inconferente, rispetto allo schema logico delineato al punto precedente.
Infatti non è richiesta, per valutare la sussistenza o l’insussistenza dell’asserito contrasto fra la sentenza delibanda e l’ordine pubblico interno, la conoscenza o la conoscibilità, da parte di uno dei nubendi, della relazione intrattenuta dall’altro con persona estranea, ma soltanto la conoscenza o la conoscibilità della riserva del partner sul bonum fidei: riserva che può concepirsi anche in mancanza di qualsiasi rapporto attuale con persona estranea alla coppia e che, per converso, può mancare nonostante l’attualità di una relazione con persona estranea.
Sicchè la notorietà, privata o pubblica, e la stessa sussistenza, di tale relazione non è determinante nel giudizi circa la conoscenza o la conoscibilità della riserva apposta da uno dei due coniugi sulla fedeltà, ma si configura come mero indizio, prudentemente (ed insindacabilmente) valutabile dal giudice di merito, assieme ad altri indizi, della possibilità di tale conoscenza.
La ratio decidendi della sentenza impugnata rimane, pertanto, incensurata, essendo appuntata la critica del ricorrente sull’elemento, pur considerato dal giudice a quo, ma non coessenziale al paradigma logico della decisione, della notorietà pubblica della relazione del L. con donna diversa dalla nubenda.
Devesi concludere, per le ragioni esposte, nel senso dell’inammissibilità del ricorso.
Le spese di questo giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
PQM
La Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.500,, di cui Euro 2.400,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.
Roma, 23 gennaio 2004.
Depositata in Cancelleria il 29 aprile 2004.