In tema di inadempimento del contratto, recesso e risoluzione non sono cumulabili, perché strumenti di natura diversa e alternativa.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III civ. con la sentenza 7 aprile-20 settembre 2004, n. 18850.
Svolgimento del processo
Con citazione del 14 dicembre 1995 Corrado Gorrieri citava dinanzi al Tribunale di Grosseto Andrea Magara e Sonia Goracci deducendo:
1) il 5 novembre 1994 aveva promesso di acquistare un appartamento, che i convenuti a loro volta avevano promesso di comprare dall’impresa costruttrice Immobiliare 82 Srl;
2) dopo aver versato la somma di lire 15.000.000 a titolo di caparra confirmatoria aveva saputo che l’impresa aveva chiesto l’ammissione alla procedura di amministrazione controllata e quindi l’acquisto della proprietà della casa, fissato al 31 marzo 1995, era divenuto impossibile. Poiché i convenuti conoscevano lo stato di difficoltà economica dell’impresa, chiedeva l’annullamento del contratto per dolo; in subordine la risoluzione per inadempimento a loro addebitabile e la condanna di essi alla restituzione della caparra di lire 15.000.000, oltre al risarcimento del danno, che quantificava in trentamilioni di lire.
Il Tribunale, con sentenza del primo luglio 1997, rigettava le domande, principali e subordinate, per mancanza di prova.
Proponeva appello il Gorrieri per la riforma della sentenza di primo grado insistendo, in alternativa al richiesto annullamento del contratto per vizio di consenso, nella domanda di risoluzione del medesimo per grave inadempimento dei promittenti venditori e per la loro condanna alla restituzione del doppio della caparra versata, oltre al risarcimento di tutti i danni subiti, pari a lire 40.000.000, o alla diversa somma ritenuta di giustizia.
La Corte di appello di Firenze, con sentenza del 15 marzo 2000, riformando la sentenza di primo grado, in accoglimento della domanda del Gorrieri dichiarava risolto il contratto per inadempimento dei promittenti compratori, e li condannava al pagamento del doppio della caparra ricevuta, oltre agli interessi dal contratto, mentre rigettava la domanda di condanna degli stessi al risarcimento di ulteriore danno in assenza di prova al riguardo. La decisione era fondata sulle seguenti considerazioni:
1) Magara e Goracci avevano promesso la vendita di una cosa altrui e perciò sì erano obbligati a procurarne l’acquisto al compratore, assumendone il relativo rischio;
2) con la sopravvenuta impossibilità, per fatto imputabile al terzo, di trasferire il bene promesso nel termine stabilito, si era verificata la loro inadempienza.
Avverso questa sentenza ricorrono per cassazione Goracci Sandra e Magara Andrea, cui resiste Corrado Gorrieri. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Con un unico motivo i ricorrenti deducono: «Violazione e falsa applicazione degli articoli 1385 e 1453 Cc in relazione all’articolo 360 nn. 3 e 5 Cpc».
L’articolo 1385, secondo comma, Cc, consente alla parte non inadempiente la facoltà di recedere dal contratto ritenendo la caparra o esigendo il doppio di essa, che quindi è stabilita per consentire l’esercizio del diritto di recesso, con conseguente estinzione degli effetti giuridici del contratto e dell’inadempimento. L’istituto non è pertanto applicabile quando la parte, chiedendo la risoluzione, vuole realizzare gli effetti dell’inadempimento contrattuale, ai sensi dell’ultimo coma dell’articolo 1385 Cc. Quindi la sentenza impugnata ha errato applicando la disciplina del recesso convenzionale, mentre avrebbe dovuto stabilire il risarcimento secondo le regole generali, atteso che la caparra, in questo caso, perde la funzione di risarcimento del danno anticipatamente e convenzionalmente stabilito per l’inadempimento della controparte.
Il motivo è fondato.
L’articolo 1385 comma 2, Cc ‑ che consente alla parte non inadempiente, in caso di inadempienza della controparte, di recedere dal contratto ritenendo la caparra confìrmatoria ricevuta o esigendo il doppio di quella versata ‑ disciplina il caso in cui essa, avvalendosi della funzione tipica della caparra intenda, con una dichiarazione risolutiva, determinare ope legis l’estinzione di tutti gli effetti giuridici sia del contratto sia dell’ inadempimento di esso. Qualora invece detta parte preferisca (articolo 1385 Cc, terzo comma) ottenere il risarcimento integrale del danno secondo i principi generali anziché nella misura concordemente e preventivamente quantificata, può esercitare l’azione di risoluzione per grave inadempimento della controparte (articoli 1453 e 1455 Cc) . Ne consegue che pur essendo entrambi i diritti fondati sul medesimo presupposto di fatto ‑ l’inadempimento non di scarsa importanza della controparte ‑ diversa è la natura delle corrispondenti azioni e delle conseguenti pronunce giudiziali. Ed infatti nel primo caso la pronuncia di risoluzione del contratto inadempiuto è dichiarativa e la parte adempiente è sollevata dall’onere di provare il danno effettivamente subito; nel secondo caso la pronuncia è costitutiva e spetta alla parte adempiente provare, secondo i principi generali (articolo 1223 Cc), il danno derivatone, che potrebbe anche coincidere con l’ammontare della somma stabilita per la caparra, ma come esito dell’ accertamento giudiziale nel contraddittorio tra le parti e non come anticipata e forfettaria liquidazione di esso (articolo 1385, secondo comma, Cc). Ulteriore conseguenza che deriva dalla risoluzione del contratto ope iudicis è che l’obbligo di restituzione della caparra, se inadempiente al contratto è la parte che l’ha ricevuta, è un effetto ripristinatorio conseguente al venir meno della causa della sua attribuzione (articolo 1458 Cc).
I giudici di appello non hanno rispettato tali principi ‑ da ribadire ‑ perché, senza tener conto che i rimedi previsti per la parte adempiente dal secondo e dal terzo coma dell’articolo 1385 Cc, pur nell’ipotesi dell’ammissibilità della sostituzione dell’uno con l’altro altro (per l’esclusione di tale possibilità Cassazione 8881/00), non sono comunque cumulabili tra loro in quanto, come innanzi chiarito, ontologicamente diversi e alternativi ‑ hanno dichiarato risolto il contratto preliminare per inadempimento dei promittenti venditori e li hanno condannati alla corresponsione del doppio della caparra ricevuta malgrado l’indiscussa manifestazione inequivoca della parte adempiente della volontà di non contenere l’obbligazione risarcitoria della controparte, quale unica ed esaustiva sanzione della sua inadempienza, nell’ammontare della caparra versata (oltre alla restituzione dell’importo per essa corrisposto).
Pertanto il ricorso va accolto e la sentenza va cassata.
Il giudice del rinvio si adeguerà al seguente principio di diritto: i rimedi risarcitori di cui al secondo e al terzo comma dell’articolo 1385 Cc non sono cumulabili tra loro e pertanto il giudice, adito dalla parte che ha corrisposto la caparra per ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte ed il risarcimento dei danni (articolo 1385, terzo comma, Cc) non può pronunciare la risoluzione del contratto e al contempo condannare la parte inadempiente a pagare pur in assenza di prova dei danni, il doppio della caparra ricevuta, ancorché la parte adempiente abbia in tal senso ampliato la domanda originaria, perché se la parte adempiente chiede la risoluzione del contratto, significa che intende realizzare gli effetti propri dell’inadempimento contrattuale, ai sensi dell’articolo 1453 Cc, e non esercitare il recesso di cui al secondo comma dell’articolo 1385 Cc.
Il giudice del rinvio provvederà altresì a liquidare le spese del giudizio di Cassazione.
PQM
La Corte accoglie il ricorso; cassa e rinvia alla Corte di appello di Firenze, altra Sezione, anche per le spese del giudizio di Cassazione.