Lo stato di tossicodipendenza non esclude il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione

di | 18 Agosto 2004

Il mero stato di tossicodipendenza non costituisce, di per sé, colpa grave ai fini dell’esclusione del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, a meno che l’interessato non abbia tenuto una condotta idonea a far ragionevolmente ritenere che l’acquisto o la detenzione illecita di sostanze stupefacenti fosse finalizzato allo spaccio.
Corte di cassazione, sezione IV penale, 23 settembre 2004, n. 37664

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Corte di cassazione

Sezione IV penale

Sentenza 23 settembre 2004, n. 37664

FATTO E DIRITTO

Con ordinanza in data 2 maggio 2003 la Corte di appello di Salerno ha rigettato l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione, subita da Grottola Antonio dal 20 dicembre 2001 al 31 maggio 2002 per l’imputazione di cui all’art. 73 d.P.R. 309/1990, dalla quale era stato dichiarato assolto perché il fatto non costituisce reato con sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore del 26 giugno 2002, divenuta irrevocabile.

La Corte di merito ha ritenuto la sussistenza della colpa grave quale causa di esclusione del diritto alla riparazione (art. 314, comma 1, c.p.p.), in quanto il Grottola non solo deteneva la sostanza stupefacente (che comunque costituisce un illecito amministrativo), ma aveva con sé tre dosi confezionate separatamente, dalle quali erano ricavabili sette dosi, in zona che era «ritrovo abituale di spacciatori e tossicodipendenti», per cui avrebbe dovuto considerare che, se fosse stato controllato, «si sarebbe potuto ragionevolmente ipotizzare che la droga detenuta era destinata allo spaccio».

Il Grottola, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendo l’annullamento con rinvio dell’impugnata ordinanza per un unico motivo, assumendo che lo stato di tossicodipendenza non può legittimare l’arresto, equiparandosi così il tossicodipendente allo spacciatore.

La questione oggetto del presente giudizio presenta profili di indubbio interesse, in quanto pone i quesiti:

a) se il mero stato di tossicodipendenza possa costituire colpa grave, a norma dell’art. 314, comma 1, c.p.p. per negare il diritto dell’imputato prosciolto nel merito alla riparazione per l’ingiusta detenzione sofferta per incolpazione attinente alle norme penali sugli stupefacenti;

b) in caso negativo, stante l’impossibilità di individuare una completa casistica astratta, se le condotte concrete addebitate al ricorrente legittimino il rigetto dell’istanza indennitaria.

In ordine al primo quesito, è noto che l’uso personale delle sostanze stupefacenti ha costituito per il legislatore un problema di non facile soluzione, dovendosi trovare un equilibrio sanzionatorio tra il disvalore sociale dello stato di tossicodipendenza, pur non assimilabile alle fattispecie penalmente rilevanti previste dall’art. 73 d.P.R. 309/1990, ed il principale obiettivo del recupero del tossicodipendente.

Tale situazione, solo apparentemente conflittuale, ha trovato attuazione nella disciplina dell’art. 75 decreto citato, la cui definitiva espressione è quella derivata a seguito del referendum abrogativo del 18-19 aprile 1993, a cui ha fatto seguito il d.P.R. 171/1993.

Questo Collegio ritiene, comunque, che lo stato di tossicodipendenza, pur essendo illecito amministrativo, non è di per sé solo automaticamente sufficiente per configurare la colpa grave a norma dell’art. 314, comma 1, c.p.p.

La giurisprudenza, ormai costante, di legittimità ritiene che il dolo o la colpa grave possano concretarsi in comportamenti sia processuali (e non è il caso di specie), sia di tipo extraprocessuale, come la grave leggerezza o la macroscopica trascuratezza, e tenuti quindi sia anteriormente che successivamente al momento restrittivo della libertà personale (Cassazione, S.U., 13 dicembre 1995, Sarnataro; Cassazione 12 dicembre 2001, Pavone).

Resta, però, la necessità che tali condotte abbiano necessariamente incidenza causale sull’emissione del provvedimento cautelare, e siano cioè tali – come espressamente previsto dall’art. 314, comma 1, c.p.p. – da dare causa o concorrere a dare causa all’applicazione del provvedimento restrittivo ovvero alla sua permanenza.

Non potendosi porre in discussione tale principio, che costituisce il dato letterale e logico della esclusione del diritto alla riparazione, è evidente che il mero stato di tossicodipendenza, pur costituendo illecito amministrativo in caso di importazione, acquisto o detenzione illecita di sostanze stupefacenti per uso personale, non può da solo dare causa al provvedimento privativo della libertà personale.

Trattandosi principalmente di uno stato soggettivo non idoneo a trarre in inganno il giudice che deve applicare la misura cautelare, ritenendo sussistenti “i gravi indizi di colpevolezza” previsti dall’art. 273 c.p.p., e soprattutto non concretandosi in una manifestazione di grave trascuratezza ovvero nella prospettazione di una situazione che faccia ritenere probabile la realizzazione di una delle condotte penalmente rilevanti e previste dall’art. 73 d.P.R. 309/1990, il mero stato di tossicodipendenza non può considerarsi “colpa grave”.

È sufficiente sul punto indicare, ad esempio, il caso del tossicodipendente che venga trovato nella propria abitazione in possesso di una o due dosi di stupefacente. È evidente che sussistono i presupposti per ritenere l’illecito amministrativo di cui all’art. 75, ma è da escludere che si possa ritenere una condotta gravemente colpevole che abbia causato l’applicazione di una misura cautelare quale la custodia in carcere o gli arresti domiciliari.

Il caso specifico è, però, diverso da come prospettato in ricorso, e soprattutto più particolareggiato, in quanto la Corte territoriale non ha escluso il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione per il mero stato di tossicodipendenza, ma per lo stato di tossicodipendenza unitamente ad altre circostanze fattuali, le quali – ricostruendo la situazione concreta quale si presentava al giudice che ha applicato la misura cautelare al momento dei fatti – erano idonee a fare ragionevolmente ritenere una detenzione finalizzata allo spaccio, e quindi configurante una delle ipotesi penalmente rilevanti previste dal citato art. 73.

Il giudice di merito ha peraltro distinto «l’operazione logica propria del giudice del processo penale, volta all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell’imputato, da quella propria del giudice della riparazione il quale, pur dovendo eventualmente operare sullo stesso materiale, deve seguire un iter logico-motivazionale del tutto autonomo, perché è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si siano poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’errore altrui) alla produzione dell’evento “detenzione”; ed in relazione a tale aspetto della decisione egli ha piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione, sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa dì esclusione del diritto alla riparazione» (Cassazione, S.U., 13 dicembre 1995, Sarnataro).

Esaminando l’ordinanza impugnata, risulta evidente che la Corte di merito non ha assimilato il tossicodipendente allo spacciatore, come sostenuto in ricorso, e certamente, se lo avesse fatto, il provvedimento si sarebbe dovuto annullare, non spettando al giudice della riparazione di riformulare giudizi sulla ormai acclarata innocenza del ricorrente.

La Corte territoriale ha, invece, preso in considerazione vari elementi risultanti dal procedimento penale, che, pur se non idonei ad una declaratoria di condanna, avevano dato causa all’applicazione della misura restrittiva della libertà personale, e cioè: lo stato di tossicodipendenza del ricorrente; il possesso di sostanza stupefacente in luogo pubblico; il confezionamento in tre dosi dell’eroina; il quantitativo corrispondente a sette dosi con effetto drogante; la circostanza che il Grottola si era recato con tali dosi di eroina in un luogo “ritrovo abituale di spacciatori e tossicodipendenti”.

Tali concrete circostanze hanno indubbiamente dato causa al provvedimento restrittivo e concretano una condotta altamente imprudente, che legittimamente può ingenerare in chi deve decidere sulla richiesta cautelare del Pm la convinzione che sussistano gravi indizi di colpevolezza a norma dell’art. 273 c.p.p.

L’esito del giudizio penale non è (e non potrebbe essere) scalfito dalle puntuali osservazioni della Corte di Appello di Salerno con l’ordinanza impugnata, avendo il giudice di merito ricostruito, in base alle risultanze del procedimento penale, la situazione di fatto con riferimento limitato al provvedimento restrittivo, e non alla sentenza, valutazione interpretativa che non solo gli spettava, ma alla quale era obbligato per la verifica dei presupposti per il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, ai sensi dell’art. 314 c.p.p.

In conclusione, il mero stato di tossicodipendenza, senza altre circostanze concrete aggiuntive, non può configurare il dolo o la colpa grave, quali cause di esclusione del diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione, a norma dell’art. 314, comma 1, c.p.p.

Non è, poi, possibile un’individuazione astratta dei comportamenti del tossicodipendente che possano configurare quanto meno la colpa grave, ma ben può il giudice valutare il materiale probatorio acquisito nel procedimento penale, al solo fine di individuare la sussistenza o meno dei presupposti per il diritto alla riparazione, con riferimento al provvedimento restrittivo della libertà personale.

Infine, la frequentazione da parte del tossicodipendente di ambienti “ritrovo” di spacciatori e di altri tossicodipendenti in possesso di sostanza stupefacente confezionata in dosi e in quantitativo non trascurabile, consente di configurare la “colpa grave” prevista dall’art. 314, comma 1, c.p.p. per l’esclusione del diritto alla riparazione, essendosi così realizzata una condotta che ha dato causa alla custodia cautelare subita.

Il ricorso viene, quindi, rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ai sensi dell’art. 616 c.p.p.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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